Andrea Carraro
Non basta la parola/6

L’arte di stroncare

Ci sono libri brutti che inquinano l’ambiente e libri brutti che si presume lascino l’ambiente com’era prima della loro diffusione: i primi vanno stroncati senza pietà, i secondi si possono ignorare

Ancora qualche considerazione sulla stroncatura, sull’atto dello stroncare. La scorsa settimana vi ho brevemente illustrato come si comportano i critici italiani, le loto motivazioni a stroncare oppure a ignorare un brutto libro. Ora vi dico come mi sono comportato io, che critico non sono, ma solo lettore. Chi scrive non essendo critico può forse permettersi di seguire il suo gusto idiosincratico, regolandosi come segue. Ci sono libri brutti che inquinano l’ambiente e libri brutti che si presume lascino l’ambiente com’era prima della loro diffusione: i primi vanno stroncati senza pietà, i secondi si possono ignorare. Mi spiego meglio. Sporcare l’ambiente per me significa molte cose: dire il falso (regola valida anche fuori dal realismo), corrompere il gusto (quasi sempre, di questi tempi, verso il midcult o gli effetti speciali), cercare di essere comici o spiritosi senza riuscirci, non essere onesti nel rappresentare il Bene e il Male, rompere il patto che si è stipulato con il lettore (qualunque esso sia), non immedesimarsi abbastanza con chi legge, mostrare superbia non giustificata, mancare degli strumenti primari della scrittura letteraria, esibire la propria cultura o erudizione senza che sia necessario a ciò che si racconta, essere faziosi e manichei nel raccontare la Storia… Potrei continuare, i peccati in cui può incorrere uno scrittore oggi sono innumerevoli. Certo, se decidi di stroncare un romanzo, poi devi essere inoppugnabile, devi fornire delle prove schiaccianti, le migliori sono quelle testuali. Pezzi di testo brutti o goffi da sgranare a ludibrio. Senza però esagerare, cioè senza che questa estrapolazione sia faziosa o arbitraria.

Chi legge la stroncatura che scrivi deve poter giudicare insieme a te condividendo il tuo ragionamento demolitorio. Il “genere” della stroncatura è spurio: sta fra l’invettiva e il saggio, tutto teso a “dimostrare”, quindi di solito argomentativo, didascalico, votato alla chiarezza e alla semplicità espositiva. Come nella letteratura, così nella critica, chi scrive sposa la semplicità, che tuttavia non deve divenire mai banalizzazione e rifiuto precostituito della complessità o dell’alterità (questa per me è la cosa più difficile). La possibilità di sbagliare è sempre presente, bisogna metterla nel conto. Il critico è un essere umano, soggetto a mille condizionamenti sociali e culturali. I gusti inoltre possono anche cambiare nel tempo e si deve avere il coraggio e l’onestà di riconoscerlo (pochissimi lo fanno). Un romanzo che giudichi esecrabile a trent’anni, puoi rivalutarlo, per mille motivi, vent’anni dopo, in presenza di mutate condizioni culturali e personali.

La stroncatura può essere ampia e argomentata, si è detto, ma anche breve e apodittica. Personalmente, mi è capitato di praticarle entrambe, ma prediligo la seconda categoria, si attaglia meglio alla mia natura censoria. Per un paio d’anni ho tenuto una rubrica che si chiamava “Come ti stronco” in un noto mensile di tendenza: si trattava di microstroncature al vetriolo di poche frasi. Beh, a un certo punto stroncai un “intoccabile” che pubblicava i suoi romanzi con lo stesso gruppo editoriale della rivista e mi fecero fuori senza tanti complimenti per mai più risentirsi. Non è affatto divertente tenere una rubrica del genere, sei sempre a caccia di bufale e inevitabilmente selezioni le letture in base alla loro mediocrità (il che è desolante e pericoloso), e poi sei sempre “guardato a vista” dalla direzione del giornale e vivi dietro i sacchetti di sabbia, per così dire. Se non me l’avessero forzatamente tolta, l’avrei comunque abbandonata, non ne potevo più. Quando subisci una stroncatura – a me da scrittore è capitato più di una volta – puoi restarci molto male. Concludendo: è meglio stroncare solo quando credi che sia davvero necessario. E’ sempre ambiguo e ingannevole tirare in ballo la categoria dell’etica, ma, scavando al fondo del problema, non ne vedo altre che possano contare davvero nella scelta di stroncare o di ignorare un libro brutto.

Consiglio 1: se ti accorgi che i moti dell’animo, le emozioni, i pensieri, dei tuoi personaggi sono ripetitivi e didascalici, puoi sempre fare la scelta di non descriverli e lasciare che sia il lettore a immaginarli. Ci sono due scuole di pensiero: quelli che descrivono le emozioni e quelli che non descrivono altro che l’azione. Naturalmente la questione è soggettiva, ciascuno deve seguire (assecondare) il proprio speciale talento descrittivo, l’importante è conoscere le due opzioni. Per fare due esempi sommi e classici: Proust descriveva in sovrabbondanza anche il più nascosto moto dell’animo, Hemingway – soprattutto nei racconti – lasciava che fossero quasi soltanto il dialogo e l’azione a parlare.

Consiglio 2: sarebbe perverso e crudele pretendere da Gadda o da Arbasino di asciugare la prosa, di ricercare l’essenzialità, giacché la loro pagina viene su per accumulo e non per sottrazione. Ma perlopiù suggerire a uno scrittore di tagliare, tagliare, tagliare credo che sia un ottimo consiglio. Tagliare è quasi sempre un bene, non bisogna aver paura di farlo. Lavorare per sottrazione è nel 90% dei casi profittevole. Molti romanzi che escono oggi sono dei racconti lunghi mascherati da romanzo. Quello che uno scrittore non deve mai fare è allungare il brodo. Il grosso del lavoro non è scrivere, è tagliare, ridurre all’essenziale.

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