Rita Pacifici
Post-classici in mostra al Palatino

Il canone necessario

All’interno del panorama contemporaneo, una corrente di artisti si oppone a fragili post-duchampismi e riafferma la grammatica della classicità. Rinterpretandola. Maestri che hanno attraversato il '900 come Pistoletto, Paladino, Paolini, Kounellis insieme ad artisti più giovani

Sulla volta della Sala dei capitelli, ambiente di rappresentanza del palazzo di Domiziano, riaffiorano le tracce della sontuosa decorazione in rosso e oro, appena restaurata. Al di sotto, tra colonne mozzate e disegni interrotti dal tempo, la testa dal perfetto plasticismo di Claudio Parmiggiani sosta sulla linea fugace che separa l’interno dall’esterno, la luce dall’ombra. Un volto dipinto in giallo cadmio, una farfalla posata accanto, gli occhi bendati. Perché il passato è sepolto dentro di noi o forse perché «Nessuno parla più alla nostra polvere», come ricorda l’artista stesso attraverso i versi di Paul Celan. Appena fuori dall’antro, nel grande vuoto dello Stadio di Domiziano, si materializzano le quattro bianche Combattenti di Marisa Albanese. Sembrano graziose fanciulle dei fumetti ma qualcosa di ancestrale le rende pensose e pesanti, simili alle immobili korai della Grecia. Protette da caschi, anch’esse a occhi chiusi, sono «l’eco della forza delle Amazzoni», spiega la scultrice, evocate, poco più in là, nei resti adiacenti alla Domus Augustana. Lungo il perimetro di quest’area del Palatino, di centosessanta metri per circa cinquanta, che dobbiamo immaginare concepita sul modello greco dell’ippodromo e arredata come una vera e propria galleria di tesori artistici, le teste, accatastate l’una sull’altra di Nino Longobardi, sono rivolte verso le architetture possenti che incorniciano il giardino del palazzo imperiale. Frammenti tra frammenti, puri calchi privi di vista, che hanno rimosso da sé origine, senso e ogni domanda perché «Il classico va tenuto in considerazione e poi dimenticato, tramite il linguaggio, la forma».

albaneseUn silenzio solenne avvolge questo dialogo tra presente e passato voluto da Vincenzo Trione e costruito lungo un ampio percorso dei Fori Romani e del Palatino per celebrare la riapertura di monumenti chiusi al pubblico da decenni, e per restituire a questi stessi luoghi il significato originario di museo diffuso, di spazi abitati dall’arte e dalla bellezza. I diciassette Post-classici chiamati a raccolta da Trione per questa mostra su La ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana (fino al 29 settembre) appartengono a generazioni e linguaggi diversi. Ci sono intanto i maestri, come Michelangelo Pistoletto, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Jannis Kounellis, che hanno attraversato il secondo Novecento trovando un riferimento costante all’antichità. Artisti che hanno cercato strade inedite per ricondurre all’interno del nostro orizzonte quell’eredità ignorata, negata o ridotta a vacua citazione dall’estetica del post-moderno. Tra questi, Mimmo Iodice, lo sguardo sapiente e chiarissimo, ci guida senza filtri verso un tempo miracolosamente intatto. Al Museo Palatino, mescolate tra busti e ritratti, in un gioco di rinvii continui, di scambi tra le parti, le sue fotografie fermano l’imprendibile, fissano presenze che appaiono essere ancora tra noi. «In fondo – ci dice – tutto cambia ma i sentimenti, da sempre e chissà per quanto in futuro, sono gli stessi. C’è l’amore, l’odio, la dolcezza. Io ho cercato di fare questo viaggio nel mondo antico, ma nei sentimenti umani». E mentre Paolini compone un collage su carta, rinunciando alla rappresentazione e ribadendo una separazione «che non è possibile colmare ma che può divenire energia creativa», Kounellis costruisce un recinto di pietre, ricompone un’unità di senso minima, ripartendo dalle rovine stesse dello Stadio Palatino.

Mimmo-PaladinoUn’analoga filosofia, un’analoga esigenza di guardare dietro di sé, «di ascoltare la voce di Mnemosyne», caratterizza molte personalità delle generazioni successive, anche le più giovani, che «avvertono la necessità di opporsi a certo fragile post-duchampismo imperante e ricominciano a sentire l’arte come esperienza dotata di una grammatica precisa. Vogliono ripristinare regole. Frequentano di nuovo le stanze del Museo». È questa affinità elettiva che ha consentito al curatore della mostra di isolare una vera corrente all’interno del panorama contemporaneo. E a testimoniarne la vitalità, Trione ha portato in mostra opere assai varie: dalle immagini stereoscopiche di ZimmerFrei, che alterano e confondono le percezioni dei luoghi, agli Ex voto realizzati con stampe digitali su cotto di Antonio Biasiucci, dalle videoproiezioni sovrapposte di Andrea Aquilanti, alle stratificazioni di carte della serie The Ruined Ruins elaborate da Gianluigi Colin. Lavori dai procedimenti lunghissimi, attraverso i quali si cerca di recuperare anche quella lentezza e complessità del fare, che non appartiene più al presente.

Per accordarsi al richiamo del classico, gli artisti scelgono poi, frequentemente, la strada del confronto diretto con il genere per eccellenza dell’antichità, la statuaria, come testimoniano Ianus di Alis/Filliol, i monoliti in creta di Francesco Barocco, o i marmi policromi di Vanessa Beecroft, corpi mutilati, sproporzionati che dicono quanto il classico sia insieme «territorio da amare e da dissacrare». Talvolta è l’architettura a generare riflessi, riletture imperfette di canoni considerati insuperabili, come le colonne di ferro dall’equilibrio precario di Roberto Pietrosanti, o l’Ulisse di Gregorio Botta che, all’opposto, reitera le proporzioni di un tempio classico, ribadendone la definitiva, impenetrabile distanza.

Mimmo-JodicePer tutti, comunque, il passato che parla da queste pietre non giace inerte nella memoria, ma è «una dimensione che ci attraversa, ci occupa». Mai soltanto reliquia, oggetto di sterile contemplazione ma una sfida continua a comprenderne e a ridefinirne limiti e valori. Forse una battaglia. Per questo Mimmo Paladino, sprofondando nell’immaginario dell’epica, ha schierato sette scudi monumentali di fronte al Colosseo. Fronteggiano il fascino e la potenza delle rovine, ne assorbono e ne combattono la grandezza, impegnati in un confronto che seduce, nutre, spesso sovrasta e schiaccia ma che è ineliminabile dalla prospettiva asfittica dell’oggi. Alle spalle, una Venere alta tre metri di Pistoletto, abbraccia una montagna di rifiuti, profanando, per la prima volta, proprio Il Tempio dedicato alla dea della bellezza. E gli stracci multicolori, detriti della vita quotidiana, si agitano al vento del Palatino, penetrati dal soffio rigenerante di ciò che sembra non esistere più.

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