Andrea Porcheddu
Lettera aperta al ministro (e ai futuri sindaci)

Un attore ci salverà

Il teatro, il suo rapporto privilegiato e diretto fra platea e palcoscenico continua a mantenere alta la bandiera della cultura. Anche se tutto, in Italia, va contro i saperi e le arti. Ricordiamocelo, quando ci sediamo in platea

L’altro giorno sono stato al Teatro Valle Occupato. Non ci andavo da molto tempo: da due anni, ossia dal giorno in cui un manipolo di attori, attrici, operatori dello spettacolo sono entrati con un escamotage e hanno preso possesso dello storico teatro in pieno centro a Roma. Ho trovato un clima di garbato entusiasmo, ancora diffuso e condiviso dopo due anni di occupazione. Sembrano superati certi eccessi, certi estremismi, e sembrano risolte alcune contraddizioni di fondo. Ho incontrato alcuni di questi “occupanti”. Li conoscevo da tempo, da prima dell’occupazione: conoscevo la professionalità, l’entusiasmo, la passione. E ho ritrovato quegli occhi pieni di vita e di determinazione.

La questione, al di là dell’occupazione, è proprio la figura dell’Attore: lo scrivo con la maiuscola, perché è una categoria che abbraccia uomini e donne, attori e attrici. Da qualche tempo, nel mio lavoro di critico, ossia di spettatore “professionista” (ancorché ormai non pagato), mi concentro sempre più su questa strana “specie”: la creatura più simile all’uomo, diceva qualcuno.

Mi interessa poco e niente la “trama” dello spettacolo, mi interessa sempre meno la magia dell’invenzione registica: e sto sempre più a guardare, incantato, quelle creature, che sono là, sul palcoscenico. Ci mettono la faccia, ci mettono tutto di loro stessi. Mi incanto a vedere quella forza e quella fragilità, la «disperata vitalità» di una «generazione sfortunata» che fa di tutto per non affondare nella mediocrità di questo paese.

Mi piace pensare che, mai come oggi, il teatro italiano ha goduto di tanto talento attoriale: giovani performer, vecchi maestri, geni (compresi) e istrioni solitari. Se in passato la scena nazionale ha vantato grandi mattatori e capocomici – però circondati spesso da comprimari imbarazzanti – o straordinari registi, oggi in teatro vediamo un livello interpretativo sempre alto, addirittura altissimo, diffuso e costante. Ci sono solisti incantevoli: pensiamo a Toni Servillo, al suo percorso anomalo che scaturisce dalla provincia, passa attraverso l’innovazione e la ricerca, e approda finalmente ad una sapienza capace di scardinare il classico. Come lui, tanti altri. Giovani e giovanissimi: colti, intellettuali, preparati molto più che in passato. Ci sono attrici capaci di superare il maschilismo imperante, lo svilimento nell’immaginario collettivo afflitto da starlette e tv-contest: attrici che sanno dirigersi, scrivere, inventare. Si cita, sempre e giustamente, l’immortale Duse: ma oggi, in Italia, di Duse ne abbiamo tante. Giovani, belle, determinate, inventive, raffinate, intellettuali. Attori e attrici, dunque, che hanno saputo reinventare il canone interpretativo – in altri paesi, come la Francia, tanto codificato da risultare ingessato e manierato. Attori e attrici che si sono presi la responsabilità di tenere viva la cultura del teatro, anche occupando, laddove necessario quei teatri-luoghi di lavoro ormai abbandonati al nulla da una politica insipiente, caciarona e distratta. E però quelle stesse persone, quegli uomini e quelle donne di cultura, sono carne da macello. Carne da macello ai provini, ad esempio.

Recentemente un’amica, straordinaria attrice in molti memorabili spettacoli firmati da maestri della regia, mi raccontava dell’umiliazione dell’ennesimo provino. Buttati là, senza decoro, senza cura, senza alcun rispetto. Come fosse aspiranti figuranti del Grande Fratello tv. Oppure mi diceva del solito regista stronzo che spoglia le attrici davanti a tutti gli altri, umiliadole senza ritegno. Poi ci sono quelli che sono costretti a fare pose nelle fiction televisive, portando un contributo di talento e sapienza a storielle spesso infami. E anche là il trattamento non è diverso: senza un mezzo camerino, senza niente, a cambiarsi per strada. Invece loro insistono, vanno in scena, sera dopo sera, incontro al pubblico. Continuano a omaggiare un’arte antica come l’uomo, continuano a recitare, a vivere il teatro. Sanno di non aver previdenza, tutela, contributi, sono costretti ad accettare contratti capestro. A lavorare in condizioni davvero disagiate. Certo, non mancano le contraddizioni: molti hanno dimenticato la solidarietà di classe, spinti a una guerra tra poveri che li mette tutti contro tutti. Indipendentemente dalla qualità, dalla professionalità, lavora chi accetta di guadagnare meno. E c’è sempre qualcuno che accetta: per disperazione, per passione, per sopravvivere, per egoismo.

Oggi viviamo, in Italia, questa incredibile pagina delle occupazioni: non solo Valle, certo – che forse è il caso più emblematico ma anche più conflittuale. Gli attori, le attrici, gli operatori, si sono impossessati di teatri abbandonati a Gualtieri come a Pisa, a Palermo come a Milano. Sono operai che si riprendono la fabbrica e la fanno andare avanti? Forse. Certo, hanno sbaragliato le carte.

Oggi abbiamo un nuovo Ministro della Cultura, e un Ministero che ha iniziato a fare proposte interessanti per sbloccare e rivitalizzare il settore. Ci saranno, tra poco, nuovi sindaci e nuovi assessori in città importanti. Forse varrebbe la pena cominciare a restituire dignità e rispetto a chi il teatro lo fa, sera dopo sera. Per ridare anche un po’ di dignità alla cultura italiana.

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