Alberto Fraccacreta
Il “Don Chisciotte” riletto dal critico

La parabola di Citati

Nella scelta di rivisitare il capolavoro di Cervantes, così inattuale in questi tempi poco cavallereschi ma piuttosto kafkiani e leopardiani, l'implicito invito a mantenere il nostro spirito su una sfera più alta, a far convivere trascendenza e realtà

Sovraccoperta blu e crema con particolare di un quadro di Hopper; libro rigido, rilegato, suddiviso in diciassette – numero significativo – capitoli; «vertiginosi raccourcis» sul “Cavaliere dalla Trista Figura” che si snodano a fasi alterne «in pochi capoversi»: perché Pietro Citati, dopo Tolstoj, Kafka e Leopardi, ci parla con franchezza e padronanza del Don Chisciotte di Cervantes? Domanda più che lecita: ci deve delle spiegazioni. E spiegazioni – permettete l’ardire – che siano convincenti e “cogenti”, perché non esiste niente di meno donchisciottesco del mondo contemporaneo, afflitto da un realismo esasperato, ai limiti del bestiale e bestiale nei suoi limiti: un mondo lucidamente kafkiano, pedagogicamente tolstoiano, a tinte fosche e leopardiane, ma lontano anni luce dal sogno mirabolante della cavalleria a ogni costo, del platonismo spinto che deforma lo spettro visivo “liquido”, a cui è impossibile, e forse impensabile, opporre una follia “solida”.

copertina citatiQueste – tutte riflessioni arcinote, dispiegate in saggi voluminosi e complessi, rivedute e corrette da filosofi e sociologi, semplificate, sintetizzate alla tv, compendiate, servite coi biscotti. E, dunque, indubbiamente non aliene al pensiero e alla penna dell’autore de Il Don Chisciotte (Pietro Citati, Il Don Chisciotte, Mondadori, 147 pagine, 17 euro). Perché, allora, questo libro? «La furibonda immaginazione creatrice del cavaliere si identifica con la fantasia della mite creatura, che muore gettando il grande grido del Cristo». L’intendimento del prolifico scrittore toscano è, forse, quello di opporre all’uomo sbadato e affaccendato del XXI secolo la calma collerica dell’immaginazione, ricordando i tratti salienti di un’opera che più delle altre ha esaltato la forza creatrice della mente? Sembra davvero che, a mezzo di una prosa asciutta e “leggiadra”, Citati voglia inoculare nel lettore il desiderio di sfogliare ancora una volta quel grande classico, passare altre ore in compagnia di Sancio Panza e del suo realismo – appunto – esasperato, intrattenersi nuovamente con la grande assente del romanzo, Dulcinea del Toboso.

Citati, evitando fumosi preamboli o interpretazioni affettate nella loro concettosità – vero e proprio horror della critica letteraria italiana – parte in medias res, ci affonda letteralmente nel testo, nelle sue avventure, nei simboli, nelle strizzate d’occhio di Cervantes che «fa attraversare le terre di Spagna da un cavaliere non meno malinconico di lui» e, senza dirlo, ci suggerisce una cosa importantissima e non scontata: la bellezza dell’intreccio di questo grande capolavoro, la raffinatezza dell’ironia e dello sconvolgimento che chiameremmo oggi “post-moderno”. Rivangare un’opera con il vigore della retorica e della sintesi non diviene allora un puro esercizio di stile, né un otium da letterati sempre più estranei ai trafiletti di potere delle agenzie di rating e dei loro misteriosi declassamenti.

Quello che siamo chiamati a fare, quello che siamo chiamati a essere oggi è nel cuore, – direbbe Heidegger – nell’essenza di quel «libro mobilissimo, inquieto, flessibile» che è il Don Chisciotte. Non meri sognatori, né cinici incalliti. Non solo platonici, né solo aristotelici radicali. Ma l’uno e l’altro. Una cosa unica. Don Chisciotte e Sancio Panza assieme. Una sola persona: «tutto, nel Don Chisciotte, diventa uno», sottolinea a ragione Citati. Siamo chiamati a una svolta: alla trascendenza dentro il reale, cioè a un innalzamento costante e spirituale della cosiddetta realtà, del cosiddetto pragmatismo, della cosiddetta economia. Mantenere lo spirito su di una sfera più alta, non fantasticamente ideale, né perdutamente ctonia. Il nostro compito sociale e storico è quello di legare queste due eterne anime della tradizione occidentale (la trascendenza e il realismo) in un mondo kafkiano, leopardiano, tolstoiano. E – e ci auguriamo con Pietro Citati – un giorno, anche… donchisciottesco.

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