Sandra Petrignani
Camera con vista: da Covacich alla Golino

Il segreto di Miele

Anatomia di un film con qualche ombra ma pieno di misteri. A cominciare quello del romanzo dal cui è tratto e che l'editore ha pubblicato due volte in due forme differenti e con due autori diversi...

Una volta lo spettacolo più frequentato nei cinema era quello delle 22,30. Si cenava con calma e poi si usciva, o si andava al ristorante, magari nei paraggi della sala così non si doveva cercare di nuovo parcheggio per l’auto, e si finiva la serata vedendosi un film. Fra la mezzanotte e trenta e l’una, più o meno, a nanna: ore poi non così “piccole”. I costumi cambiano, per la maggior parte della gente l’ora di cena non è più inderogabile. Si può fare slittare a più tardi, o si può addirittura saltarla, la cena, con ottime ripercussioni sulla linea: un modo come un altro di stare a dieta. E dunque adesso lo spettacolo più affollato nei cinema è quello delle 20/20,30.

Mi domandavo la ragione del cambiamento l’altra sera al Quattro Fontane, uno dei cinema più frequentati di Roma e con le migliori programmazioni (si trova in una traversa di via Nazionale, raggiungibile facilmente in autobus e anche in metropolitana). Andavo a vedere un film di cui si parla molto bene, Miele, esordio nel lungometraggio come regista di una brava attrice italiana, Valeria Golino e mi aspettavo di trovare il pienone, sia pure alle famigerate 22,30. Macché, la sala era praticamente vuota. Eppure, con tutti i disoccupati in giro, di persone che devono svegliarsi presto al mattino non ce ne sono più tante. Forse – mi sono chiesta – non hanno i soldi per pagarsi il biglietto? Ma allo spettacolo delle otto, però, ci vanno, e costa lo stesso prezzo. Dunque? Mistero. Oggi si preferisce andare prima al cinema e poi mangiare con calma, e non importa se dopo mezzanotte il cibo ti resta sullo stomaco. Lascio  il quesito in sospeso aspettandomi una risposta dai sociologi, se avranno voglia di indagare, e passo a un altro argomento, il film che ho poi effettivamente visto al Quattro Fontane, Miele.

Mi è piaciuto? Diciamo che non mi è dispiaciuto. Quello che mi era piaciuto, e molto, è il romanzo da cui è stato (liberamente) tratto. I titoli di coda dicono che s’intitola A nome tuo ed è di Mauro Covacich, uscito da Einaudi nel 2011. E qui si apre un altro mistero: io me lo ricordo benissimo il libro che narra questa storia potente, quella di una ragazza che vive aiutando la gente a morire, ma s’intitolava diversamente: Vi perdono, pubblicato da Einaudi Stile Libero nel 2009. Il mio ricordo di quel testo è molto vivo perché ne avevo anche scritto su l’Unità. L’autrice si nascondeva sotto lo pseudonimo di Angela Del Fabbro e fu montato un caso per far credere che fosse la vera protagonista della storia, che però voleva – per ovvie ragioni – restare anonima. Adesso confronto i due testi: uno, il secondo, quello di Covacich è, stando al numero di pagine, il doppio dell’altro (ossia quello della Del Fabbro, che poi era sempre lui sotto falso nome, scopro parlando con qualcuno della casa editrice). Allora il mistero è svelato? No, perché per me il vero mistero è la ragione che ha spinto Covacich ad annacquare una bellissima storia, scritta magnificamente, ingabbiandola in un inutilmente complicato altro romanzo. Sarebbero affari suoi, se non fosse che diventano affari nostri, di noi lettori voglio dire, quando un editore non si preoccupa di segnalarci l’operazione compiuta e spaccia per interamente nuovo un romanzo già pubblicato, almeno in parte. Il titolo è stato cambiato (e quanto era più bello e determinato il primo!), il nome dell’autore pure, la mole è diversa: come fa un poveraccio a sapere che sta acquistando qualcosa che ha già acquistato in precedenza, infilato dentro un diverso contenitore? Non trovo una parola di avvertimento nel risvolto, tanto meno in quarta di copertina: è lì che i lettori s’informano quando gironzolano fra i banchi di una libreria meditando di comprare qualcosa. Una nota dell’autore c’è solo all’interno, alla fine del volume, arzigogolata e a caratteri minuti, di quelle che si evitano come la peste e che comunque, essendoci tanto di cellofan, non si potrebbe in libreria arrivare a leggere se non rompendo l’involucro e rischiando di essere redarguiti severamente. Vi si nomina, sì, Vi perdono, ma senza preoccuparsi di precisare in modo chiaro che è diventato una parte di A nome tuo! E dire che nella mia recensione avevo scritto: «Chiunque si nasconda dietro il nome Angela Del Fabbro: complimenti». Ora mi tocca ritirarli a Covacich i complimenti, e ne sono dispiaciutissima.

Tornando al film ha dunque fatto benissimo Valeria Golino a ignorare interamente i capitoli superflui, quelli nuovi, e a impostare la sua trama sulla concentrata vicenda di Miele (così si chiama l’accabadora del racconto) prendendosi solo la libertà d’inventare una complicazione amorosa che nel romanzo non aveva sviluppo. E che però rende un po’ melò una storia che di sentimentale non aveva nulla, o meglio teneva il sentimento sprofondato nell’inconscio dei personaggi facendolo intuire senza esplorarlo, e questo era anzi uno dei suoi meriti più evidenti. Merito evidentissimo del film, invece, è la presenza di Carlo Cecchi in stato di grazia assoluta. Mentre la protagonista femminile, una graziosissima Jasmine Trinca con i capelli corti, dovrebbe forse pensare a prendere lezioni di recitazione se vuole continuare a fare l’attrice. Il viso espressivo e la fisicità sono perfetti, ma non è possibile che non azzecchi un’intonazione che è una, quando pronuncia due frasi di fila. Direi anzi che è un vero peccato, per lei – così adorabile – e per noi.

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