Anna Camaiti Hostert
Luci e ombre su Washington e dintorni

Franklin Delano Obama

Il presidente americano è tra quelli che maggiormente hanno cercato di rivoluzionare la struttura sociale statunitense. Tuttavia, anche per via dei suoi tormenti, è diventato il bersaglio di una campagna ideologica. Ai limiti del razzismo...

Il paragone tra Franklin Delano Roosevelt e Barack Obama è risuonato più volte sulle colonne della stampa americana fin dal suo primo mandato. C’è infatti chi ha visto nel primo presidente nero degli Stati Uniti un epigono di Roosevelt per la sua politica sociale come il prof. William Leuchtenburg autore del saggio Franklin D. Roosevelt and the New Deal o chi come il giornalista Peter Beinart in un articolo su Time Magazine intitolato The New Liberal Order  subito dopo l’elezione di Obama scrisse: “Se farà quello che fece FDR – cioè rendere il capitalismo americano più stabile e meno selvaggio – si assicurerà un maggioranza democratica che riuscirà  dominare la politica americana almeno per una generazione”. Come sappiamo così non è stato.

Alcuni hanno evidenziato pertanto anche grandi differenze. È il caso di Alexander Heffner che sul Washington Post trasforma questo paragone in un’accusa. Roosevelt come Obama, secondo il giornalista, fu catapultato in una crisi senza precedenti per l’uno quella del 1929 per l’altro quella del 2008. Tuttavia il primo rispose inizialmente con lo stop al dissanguamento che il deficit provocava nella finanza pubblica, poi con un gigantesco programma federale, con l’aumento delle tasse ai più abbienti, con l’incarico ai sindacati di trattare i contratti collettivi, e infine last but not least con l’istituzione delle pensioni sociali, il cosiddetto sistema del Social Security. Riforme talmente epocali che fecero sentire i loro effetti fino alla presidenza Reagan.

Per Obama invece dopo il Recovery and Reinvestment Act del 2009 che negli intenti avrebbe dovuto assicurare una forte ripresa dell’economia e che, va aggiunto, in parte l’ha ottenuta, il cammino, secondo l’editorialista, è stato in discesa. L’accusa è di non essere stato abbastanza deciso o insistente nel proprio programma di riforme, di essersi perso in una sorta di bipartisanship idealistica e senza risultati. In breve accusato di essere troppo tenero con l’opposizione repubblicana e di non attaccare i propri nemici con la stessa ferocia con la quale attaccano lui. Da alcuni, come la giornalista Ruth Marcus sullo Washington Post è stato rimproverato di tormentarsi troppo sulle proprie decisioni, da qui il nomignolo di Agonizer , da altri come la famosa editorialista liberal Maureen Dowd del New York Times è stato consigliato di guardare più a Lindon Johnson che a Roosevelt. Motivo che non ha saputo conquistare i voti necessari per far passare lo stop alla vendita indiscriminata delle armi.

Ma che si voglia paragonare Obama a Roosevelt o a Johnson o no, c’è una cosa fondamentale che non dobbiamo dimenticare: ambedue questi presidenti avevano una maggioranza schiacciate in Senato, mentre Obama ha solo 55 seggi democratici e una maggioranza repubblicana nella House of Representative. Johnson aveva 68 seggi in Senato durante il periodo dei Civil Rights  e 64 per il Voting Rights Act, mentre Roosevelt 75 nel picco più alto delle sue grandi riforme. E, seppure è opportuno ricordare che Johnson ebbe a che fare con i senatori segregazionisti democratici del sud, poteva però contare su quelli moderati e più liberal tra i senatori repubblicani del nord. Come non va dimenticato che anche Roosevelt fu appoggiato da alcuni repubblicani progressisti disposti a varcare i confini del partito per sostenerlo in molte delle sue riforme. Forse perché allora ancora si credeva che il bene del paese fosse più importante della bandiera politica.

Questo però non sembra il credo dell’oggi. Obama infatti oltre ad essere criticato da giornalisti e media liberal, si trova di fronte al muro di un’opposizione repubblicana che non manifesta nessuna volontà di collaborazione in nessuna delle due camere, che non lo sostiene in niente e che determina uno stallo pericoloso che il presidente non riesce a superare. Un atteggiamento defatigante che tende sì a stremare la sua volontà di  riforme, ma che è anche autodistruttivo. Prova ne sono gli scandali della scorsa settimana da quello dell’IRS che perseguitava i gruppi repubblicani, ai fatti di Bengasi, alle spiate ai giornalisti dell’Associated Press, montati a tal punto dai repubblicani da determinare un polverone che ha fatto invocare perfino urla di impeachment: un buio generale in cui tutte le vacche sono nere e che non aiuta ad individuare e tantomeno a risolvere i gravi problemi che gli stati Uniti devono affrontare nel breve periodo.

Questo disinteresse totale nelle riforme sociali mostra tuttavia un male oscuro le cui implicazioni sono inquietanti. C’è il rischio infatti che gruppi o lobby che tradizionalmente hanno sostenuto  il partito repubblicano se ne stiano allontanando  a causa  della sua totale riluttanza a qualsiasi tipo di compromesso. Questo soprattutto in riferimento alla riforma sanitaria a cui i repubblicani si rivolgono essendo ostaggio assoluto dei Tea party. Qualsiasi accordo con i democratici è visto come una concessione a quella che definiscono Obamacare anche se questo potrebbe rappresentare un miglioramento della situazione attuale. Prova ne sia che alcune delle critiche più insistenti a questo atteggiamento di rigidità vengono da piccole società, che ruotano attorno alla galassia delle grandi compagnie assicurative e che sono tradizionali supporters del Partito repubblicano. Lo stesso accade per la riforma del sistema di tassazione e per alcuni provvedimenti che riguardano la difesa nei confronti dei quali l’ostruzionismo repubblicano è cieco e assoluto. Come se bloccare quello che fa il presidente fosse più importante che aiutare il paese  risolvere i veri problemi che ha di fronte. Un atteggiamento pericoloso perché’ alcuni di questi attanti potrebbero cambiare bandiera e votare  per i democratici, lasciando il partito repubblicano in mano agli estremisti, più interessati alle vittorie contro il nemico che al bene del paese.

Primo presidente non ideologico in un ambiente politico che è tornato a essere ciecamente ideologico, Obama ha tuttavia fatto passare, tra le altre, una riforma sanitaria che nessun altro presidente in passato era riuscito a far approvare. Viene il sospetto che questo accanimento contro di lui riveli un sottofondo di razzismo strisciante che certo non depone a favore delle grandi tradizioni democratiche di questo paese. E che certamente non è aiutato dall’animo tormentato di Obama: il presidente infatti non ama prendere decisioni unilaterali, non ama i pasticci che di solito vengono richiesti ai politici e continua a credere sia importante  invitare la nazione a ragionare con lui a dispetto del fatto che metà del paese pensa che le loro premesse sono agli antipodi. Fare questo non è facile, ma conoscendo il modus operandi di Obama possiamo essere sicuri che continuerà a provarci fino a che gli sarà possibile. Tutte caratteristiche positive che restituiscono alla politica la sua dignità, i suoi scopi nobili, originari e che certamente faranno sì che Obama non passi alla storia solamente come il primo presidente nero della storia americana.

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