Nicola Fano
Una proposta provocatoria

Vietate il calcio!

Le partite sono vendute. Ogni scontro costa alla comunità milioni e milioni di euro inutili. I giocatori onesti si contano sulla punta delle dita. Da Berlusconi in poi, il calcio è stato usato per intorbidire le intelligenze e dissimulare altri affari. Ecco perché, per salvare l'Italia, sarebbe meglio metterlo fuori legge...

Diceva Osvaldo Soriano che “in fin dei conti il calcio è fantasia, un cartone animato per adulti”. Ma Osvaldo Soriano quando parlava di calcio (e solo in quel caso) era un inguaribile ottimista. E poi, forse, a questo punto noi italiano abbiamo un po’ esagerato. Degli accoltellamenti fuori dallo stadio Olimpico prima del derby non vale nemmeno parlarne: normale amministrazione. Dei soldi dei cittadini spesi in sicurezza (straordinari della polizia, elicotteri, autobus speciali) non si può fare parola, pena sembrare asociali e vittimisti. Niente da dire sulla legittimità morale di quegli impresari calcistici o quegli allenatori o quei giocatori che pubblicamente insultano e biasimano e accusano chi – semplicemente – in campo cerca di far rispettare le regole. Le regole nel nostro Paese valgono solo quando ci sono direttamente, personalmente utili.

E della corruzione (i calciatori miliardari che si fanno comprare), che vogliamo dire? E del vandalismo dei tifosi che distruggono regolarmente treni, autobus pubblici, che imbrattano strade, palazzi, muri (tutte distruzioni che poi tocca alla comunità ripagare)? E della violenza diffusa, dei bastoni, degli insulti, degli sputi? Quanto ci costa tutto questo? E, soprattutto, quale legittimità morale ha questo carosello infetto? Ergo: meglio sarebbe mettere fuori legge il calcio tout court. In capo a qualche anno, si vivrebbe meglio. Probabilmente molto meglio: perché una rivoluzione nel nome del calcio durerebbe lo spazio di un battito di ciglia. Meno di quella grillina! Semmai, qualche camorrista saprebbe subito organizzare un bel campionato di calcio clandestino per lucrarci su (ma del resto, non è già così oggi, in concreto?).

La filosofia dell’ultras ha pervaso del suo veleno qualunque cosa in questo nostro povero Paese. Non si partecipa: si fa il tifo. Qualcuno ha dimenticato troppo in fretta come il lessico calcistico abbia invaso il nostro parlare comune; come il turpiloquio da bar sport abbia contagiato, per esempio, anche il dibattito politico (che, per sua natura, dovrebbe essere anche etico, quindi alto). Qualcuno ha dimenticato che il primo fu Berlusconi, nel 1994, a esordire dicendo di voler “scendere in campo”; fu lui a proclamare per primo la necessità di “fare squadra”; lui a pretendere che i giornali chiamassero i suoi deputati e senatori “Azzurri”. Senza contare che rubò il nome del suo “partito” alla tifoseria in senso stretto! Come è andato a finire questo lento processo di corruzione della morale condivisa e delle intelligenze singole? È finita che da vent’anni siamo tifosi, ultras di una parte auspicando la morte degli avversari. Abbiamo rubato sciarpe nemiche per esporle come trofei, abbiamo sputato sui nemici, li abbiamo ridicolizzati, umiliati. Ma mai più contrastati solo con le nostre idee. La stessa ossessione, tra il patetico e il ridicolo, contro i “comunisti” propugnata da Berlusconi (e ormai monete corrente in Italia) inizia da lì: dalla filosofia dell’ultras.

Nei bar, nei mercati rionali si ascoltano discussioni approfondite e sapienti di filologia calcistica. La lunghezza del passo di quell’attaccante; la prontezza di riflessi di quel difensore; la velocità della palla; i precedenti storici; la casistica internazionale. Con le mie orecchie ho sentito sagaci tifosi (uomini o donne) commentare con competenza le partite dei campioni minori tedesco o spagnolo. Se solo un quarto, anche un quinto di questa determinazione, di questo senso critico fosse stato applicato non dico a temi etici e culturali ma almeno allo spiccio destino delle nostre leggi e della nostra comune convivenza oggi il nostro Paese non sarebbe così arretrato in base a tutti i criteri di riferimento internazionale. Possibile che non ci si sia resi conto che in vent’anni le diatribe calcistiche hanno intorbidito le intelligenze? Possibile che non ci si sia resi conto che questo è avvenuto in base a un progetto sociale, economico e politico ben preciso? Andate all’estero, accendete una tv e non troverete calcio a ogni ora del giorno tutti i giorni come qui da noi: in nessun Paese del mondo. In Italia il calcio è diventato un genere televisivo che riempie i palinsesti di programmazione e pubblicità. E già che c’eravamo, abbiamo ingigantito le curiosità e lo spirito critico calcistico per alienare qualunque altra applicazione dell’intelligenza.

Al punto che i tifosi, oggi, non si rendono nemmeno conto che il loro giocattolo è scoppiato. Che tutte le partite sono vendute. Che ogni match costa alla comunità milioni e milioni di euro inutili. Che i giocatori onesti si contano sulla punta delle dita. Che i presidenti e gli allenatori si fingono attaccati “alla maglia” per puro interesse economico personale. Il calcio è morto. Sarebbe meglio certificare questa realtà vietandolo. Poi, depurati, disintossicati, forse si ricomincerà a viverlo come un cartone animato. Forse.

Facebooktwitterlinkedin