Nicola Fano
A proposito di uno spettacolo memorabile

Elogio di Brecht

Abbiamo trattato l'autore tedesco come un comunista appestato. E invece Umberto Orsini e Claudio Longhi, con "La resistibile ascesa di Artuto Ui" in tournée per la terza stagione, ci dimostrano quanto sia viva (e appassionante) la sua lezione

Da venticinque, forse trent’anni viviamo affogati nella pretesa di un modernismo dove ognuno galleggia per liberarsi di regole, vincoli, radici e memorie. Abbiamo buttato a mare idee e ideologie come fossero zavorra inutile per conquistare il paradiso delle grandi apparenze. Ogni tanto, c’è qualcuno che si ostina a ricordarci che cosa abbiamo perso e, chi se ne rende conto, s’emoziona per il lutto (inutile) mai elaborato. Proprio questo, un lutto non elaborato, è il bellissimo Arturo Ui di Brecht tornato in scena all’Argentina di Roma (e in tournée per la terza stagione!) con un memorabile Umberto Orsini in scena coadiuvato da una compagnia di formidabili giovani interpreti diretti da Claudio Longhi.

Qualche anno fa (complice un altro grande, Eros Pagni) parve che La resistibile ascesa di Arturo Ui, testo postumo di Brecht, fosse il luogo perfetto per spiegare l’ascesa, qui da noi in Italia, della sospetta supremazia economica di Berlusconi. Giustissimo, eppure a rivedere oggi questo spettacolo viene naturale una considerazione: se Brecht pensava la parabola del gangster che prende il potere con la violenza e la corruzione come la metafora del nazismo, è perché il quello snodo storico/simbolico c’è non solo il senso del Novecento ma anche il fallimento del capitalismo. Circostanza che comprende tutto, da Hitler a Berlusconi, rimescolando le carte in quello che nel Novecento e in questo scorcio di Ventunesimo secolo è il fallimento del modello occidentale: la democrazia (violata da tante forzature improprie…) non basta più a contenere l’immoralità naturalmente insita nell’accumulo di capitale ai danni del prossimo.

Serviva Brecht, insomma, serviva il suo approccio “ideologico” per ricordarci dove abbiamo sbagliato, quando abbiamo abbassato le difese, quando abbiamo concesso il primo punto di vantaggio all’immoralità; esordio certo – abbiamo capito dopo – di un tracollo totale. Nel senso che Brecht legge Hitler come un corruttore, prima di tutto. la metafora di Arturo Ui lo vuole un corruttore economico, ma nella realtà fu un corruttore morale, come ci ha insegnato magistralmente Primo Levi nel suo capolavoro: I sommersi e i salvati. Del resto, al di là della sana, sacrosanta tenacia della signora Boccassini, la storia condannerà probabilmente Berlusconi per come ha corrotto la moralità di questo nostro disgraziato Paese più ancora di quanto i tribunali italiani stabiliranno a proposito delle sue (eventuali?) malefatte fiscali e commerciali. C’è stato un tempo (in Francia sul finire degli anni Sessanta) in cui si diceva: “Per essere marxisti senza essere stalinisti bastava essere brechtiani”. Le armi della cultura e della poesia possono essere messe al servizio dello spirito critico comune. Ossia proprio ciò che abbiamo perso in questo ultimo quarto di secolo e che – sommessamente – Umberto Orsini con Luca Micheletti e Lino Guanciale (i due co-protagonisti accanto a lui) tentano di rammentarci.

Verso la metà degli anni Ottanta, quando l’auspicio di un maremoto socio-politico in grado di far cadere il Muro infuocò gli animi dell’Occidente, un regista tedesco che sarebbe diventato grande, Jürgen Flimm, presentando a Colonia una sua “riduzione” de L’opera da tre soldi mi disse: “Abbiamo tagliato tutte le parti noiose di Brecht e abbiamo lasciato solo le canzoni. Perché non resiste alla storia”. Lì per lì, mi parve un’intuizione geniale, perché depurava – pensai – il poeta comunista delle sua ideologia, lasciando intatto il suo senso teatrale. Ma l’altra sera, all’Argentina, quella frase mi è tornata in mente e ho cambiato parere. La resistibile ascesa di Arturo Ui diretta da Claudio Longhi (anche grazie all’intervento massiccio e devoto, sul copione, del dramaturg Luca Micheletti), è uno spettacolo rutilante e divertente. Pieno di trovate, di colpi di scena, di sorprese e meraviglie poetiche. Ma nulla di Brecht è stato alterato. Anzi. Di fronte – come si diceva all’inizio – alla ragionevole intenzione di rileggere questa parabola alla luce delle miserie dell’italiana berlusconiana, regista, dramaturg e interpreti hanno voluto “tornare a Brecht”. E ne hanno tratto teatro allo stato puro (canzoni, colori, passioni…). Dovremmo farlo più spesso – io credo – di tornare a Brecht. A patto di fare come hanno fatto loro: liberarlo non dall’ideologia, ma dell’esegesi “comunista” che aveva un senso negli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso ma che oggi non ha più ragione d’essere. E allora, vinto il fantasma del passato, si potrà tranquillamente dire che Brecht non è un autore “politico”, il suo non è “realismo”, ma pura astrazione teatrale. Perché a teatro, anche la storia diventa una favola.

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